Il mio viaggio in Russia: giorno 4

A LEZIONE DI CUCINA

Martedì, 31 luglio 2018

Piroshki dolci e kasha

La mattina di martedì 31 luglio ero ormai entrata nel pieno vivere russo e feci colazione, oltre ai soliti piroshki alle yagodi e lo yogurt, con la kasha, un porridge di cereali che costituisce il piatto tipico della colazione tradizionale russa.

Mentre stavo mangiando, Nadezhda si stava preparando per andare al lavoro. Quando uscì dalla sua stanza, venne in cucina con in mano due libri: uno su Pushkin, poeta molto amato, credo in ogni angolo remoto della Russia e uno fotografico su Kivach, un parco nazionale della Carelia, facendomi capire che me li stava regalando. Io, incredula, mi convinsi che voleva solo mostrarmeli e, pertanto, feci uso delle mie povere competenze di russo per chiedere “No, njet v’Italii, da?” (Ma, non in Italia, giusto?) e lei, per tutta risposta, mi disse “Da, da v’Italiii” (Sì, sì in Italia), facendo segno con le mani come di qualcosa che prende il volo. A quel punto, mi profusi in ringraziamenti ripetuti e portai con me i libri nella mia stanza, dove continuai a sfogliarli, chiedendomi quando sarei stata davvero in grado di leggere un libro di poesie russe.

Il nostro programma culturale prevedeva una lezione di cucina verso tarda serata, perciò mi sentii in dovere di informare i miei “genitori adottivi” che sarei tornata tardi. Prima che Nadezhda uscisse per andare al lavoro, quindi, con non poca fatica, cercai di spiegare che non avrei cenato a casa con loro, aiutandomi anche con il programma cartaceo, che ci era stato consegnato all’aeroporto di Pietroburgo al momento della partenza per Petrozavodsk con il transfer, dove erano segnati gli orari di inizio e fine del workshop. Risi quando Vladimir tentò di leggere le parole in inglese scritte sul programma, con una pronuncia a dir poco agghiacciante.

In qualche modo, comunque, riuscii a farmi capire e dieci minuti dopo che Nadezhda uscì, sentì Vladimir dire “Ya ushol!” (Me ne vado). Non ebbi il tempo di andare in corridoio che era già sparito. Non lo vidi più per tutto il resto della settimana. Era tornato in dacia.

Mi incontrai alla solita ora e al solito posto con i miei compagni e ci avviammo verso la scuola.

A lezione, il tema del giorno era “il ristorante”: imparammo i nomi di alcuni piatti russi, come ordinare del cibo e facemmo esercizi di conversazione. Alla fine, Alina ci disse che ci avrebbe inviato per e-mail alcune espressioni da usare in ristoranti e bar da imparare per la mattina seguente, in quanto, prima di iniziare la lezione, saremmo andati con lei in un bar a ordinare qualcosa per mettere in pratica quanto appreso.

L'okroshka

Alle 14 saremmo dovuti tornare a scuola per effettuare il pagamento del corso, quindi pranzammo da Шашлык (Šašlyk), un chioschetto non troppo lontano, dove decisi, viste le temperature, di provare l’okroška, una zuppa fredda. Alla prima cucchiaiata non era male, ma poi i 30 kili di aneto buttati lì dentro iniziarono a farsi sentire. Non posso dire che sia la cosa più buona che abbia mangiato, ma Serena mi disse che qualche giorno prima aveva mangiato quello stesso tipo di zuppa preparato dalla sua babushka e che non era neanche lontanamente paragonabile a quella che stavamo mangiando noi due in quel momento. Decisi che eravamo solamente capitate nel posto sbagliato e che in futuro avrei ritentato la sorte da qualche altra parte.

Tornammo a scuola per il pagamento e quando uscimmo, alle 15, la babushka di Serena ci stava aspettando davanti all’ingresso insieme alla sua nipotina. Lyubov’ (Amore), questo il nome della signora, ci portò in un’infinità di negozi di souvenir, alcuni dei quali probabilmente non avremmo mai notato se non fosse stato per lei in quanto vi si accedeva tramite scalini che conducevano sotto il livello della strada. Oltre alle solite cartoline e magneti per il frigorifero, c’erano esposti moltissimi altri souvenir, uno più bello dell’altro: statuette in shungit di ogni forma, scatole e contenitori in legno di betulla, ciotole e cucchiai decorati con motivi floreali dai colori caldi, vassoi finemente dipinti, matrioshke di ogni dimensione, foulard, colbacchi ecc., insomma l’imbarazzo della scelta.

Per strada chiesi a Lyubov’ se poteva aiutarmi a comprare dei francobolli e quindi ci accompagnò alla posta, dove, grazie al suo aiuto, riuscii a interagire con l’addetta allo sportello. Abituata al servizio che si riceve di solito in Italia, rimasi piacevolmente sconvolta dalla gentilezza dell’impiegata delle poste che mi fece addirittura scegliere i francobolli che preferivo. I francobolli sono tutti da 50 rubli, indipendentemente dalla destinazione della cartolina, cosa che tutto subito mi fece un po’ specie, ma mi fidai e le cartoline sono, in effetti, arrivate tutte. Addirittura prima di quanto prevedessi.

Più tardi, verso le 17.30, Lyubov’, dopo aver insistentemente cercato di convincere Serena a tornare a casa e cenare prima di andare al laboratorio di cucina, ci salutò e se ne andò con la nipotina. Noi girammo ancora un po’ per la città prima di recarci, alle 6, davanti alla seconda sede della nostra scuola, non lontana dalla principale. Quando Anton arrivò con la navetta, ci recammo, insieme con la nostra coordinatrice Nastya, al cafè Vinograd.

Uno dei kalitki preparati da noi

Qui ci venne dato un grembiule ciascuno e ci disponemmo tutti intorno al lungo tavolo nel retro del bar dove già c’erano gli ingredienti necessari per preparare i kalitki, cestini di pasta con ripieni di diverso tipo.

La nostra insegnante per quella sera si presentò (anche lei Nastya – suppongo che Anastasiya sia, in Russia, un nome tanto comune quanto Elisa lo è in Italia) e subito iniziò a spiegarci come preparare l’impasto dei kalitki. Non appena fu pronto, ciascuno di noi prese tre piccoli pezzi di pasta e, con l’aiuto del mattarello, la stendemmo in modo da ottenere una forma rotonda più spessa al centro e più sottile ai lati. I tipi di ripieno possibili erano patate bollite, kasha e tvorog (una specie di ricotta) con yagodi. Dopo aver messo i ripieni al centro, per far sì che non fuoriuscissero, ripiegammo i bordi verso l’interno.

La tavola apparecchiata con il samovar al centro

Una volta completati, li mettemmo tutti su diverse teglie e Nastya li mise nel forno.

Nell’attesa che i nostri kalitki giungessero a cottura, Nastya ci intrattenne, prima mostrandoci una presentazione riguardo a questo piatto tipico che imparò a preparare da sua nonna e poi dando a ciascuno di noi delle carte con sopra dei disegni bizzarri che lei ci “lesse”, tipo cartomante. A detta sua, la mia carta diceva che in futuro avrei viaggiato spesso. Chissà!

Poi preparammo la tavola e Nastya mise al centro due samovar, grandi teiere metalliche con fornello incorporato.

Quando finalmente i kalitki furono pronti cenammo e bevemmo l’immancabile tè caldo. Giunti a sazietà, restituimmo i grembiuli, ringraziammo Nastya e tornammo verso il centro con Anton, che ci posò ciascuno nei pressi dei nostri appartamenti.

To be continued…

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