Il mio viaggio in Russia: giorno 5
GIOCHI LINGUISTICI TRA AFA E TÈ CALDO
Mercoledì, 1 agosto 2018
Ormai avevo preso l’abitudine di fotografare ogni cosa, alla maniera degli antropologi, per documentare nel modo più dettagliato possibile questo viaggio in modo da ricordarlo per sempre e anche perché, chissà, magari mi sarebbe venuta voglia di scrivere due righe a riguardo.
Il mercoledì mattina feci colazione con kasha e kotleta (polpetta) e, sorprendentemente, il mio stomaco accettò la cosa. Non sono mai stata una di quelle persone convinte che il cibo italiano sia il migliore a prescindere. È soltanto una questione di gusti e di abitudine e il fatto che esistano tutte queste differenze fa del mondo un posto meraviglioso, tutto da esplorare e di cui stupirsi. Non solo, quindi, mi stavo abituando al cibo, ma stavo anche iniziando a sentirmi molto più a mio agio con la mia signora. Peccato che tra un paio di giorni avremmo dovuto salutarci.
Prima della lezione, come ci era stato detto da Alina, ci incontrammo tutti da Bekker, un grazioso cafè sul Prospekt Karla Marksa, dove entrammo a coppie per ordinare qualcosa, con Alina che, un po’ in disparte, se ne stava muta e si segnava eventuali nostri errori. Io ordinai dell’acqua (dato che già a quell’ora del mattino l’afa si faceva sentire) ed era addirittura fresca di frigorifero. Mi ripromisi di tornarci il mattino dopo per fare rifornimento.
Ritornati in classe, Alina corresse alla lavagna i nostri errori grammaticali commessi durante l’acquisto. Poi la lezione continuò sempre sul tema “ristorazione”. Alla fine ci fu assegnato un compito per il giorno dopo: andare a pranzare in un ristorante, ordinare in russo e poi completare una tabella in cui avremmo dovuto scrivere dove eravamo andati, cosa avevamo mangiato, quanto e come avevamo pagato e cosa ci aveva chiesto l’ofitsiantka (cameriera).
Alcuni miei compagni di avventure, la nostra docente ed io decidemmo di andare al Bistrot Déjà vu, un locale molto carino, con ottimo cibo e prezzi ridicoli. La cucina era esclusivamente russa e io scelsi pelmeni e bliny al burro. Inutile dire che era tutto squisito. L’unica pecca: quella briciola di aneto in più nei miei pelmeni.
Per quel pomeriggio era in programma uno speaking club verso le 16.30 presso la sede secondaria della scuola, quindi, finito il pranzo, io e miei compagni di università gironzolammo un po’ alla scoperta della città. La cosa divertente è che, a quel punto, anche quando parlavamo tra di noi, ci veniva naturale parlare in russo.
Decidemmo anche di fare un salto al Kotokafè, un locale in cui si pagavano 5 rubli al minuto (circa 0,07 centesimi di euro) per stare in mezzo a 15 gatti. Per entrare era necessario cambiarsi le scarpe con quelle presenti nell’atrio e lavarsi le mani con un spray apposito. Per i 10 minuti che restammo lì, la ragazza che gestiva il negozio si mise a far giocare i gatti tra loro, probabilmente per fare in modo che ci fermassimo più a lungo e il conto da pagare aumentasse. Astuta!
Usciti dal Kotokafè, ci recammo alla scuola per lo speaking club. Nell’aula l’afa era insostenibile, ma, sul lungo tavolo in centro alla stanza, già ci aspettavano tazze in cui sarebbe stato versato del tè bollente di lì a breve.
Lo speaking club consisteva in una serie di giochi linguistici con lo scopo di migliorare il nostro livello di lingua. Ne ricordo due in particolare, ma purtroppo non i loro nomi.
Per uno di questi, Natalja ci divise in due gruppi, a cui venne dato un mazzo di carte in cui erano scritte delle parole. L’obiettivo del gioco era quello di cercare di descrivere la parola in modo che l’altro gruppo riuscisse a indovinarla. Vinceva il gruppo che, nel tempo di una clessidra, riusciva a far capire all’altro gruppo il numero più alto di parole.
In un altro, che probabilmente si chiamava Kto ya (Chi sono), venne data una carta a ciascuno di noi, da tenere sulla fronte rivolta in modo che gli altri potessero vederla, ma il possessore della carta no. Sulle carte erano presenti figure appartenenti a cinque categorie, tra cui “professione”, “cosa”, “animale”, “frutto” e una quinta che non ricordo. Ognuno di noi doveva porre delle domande agli altri con lo scopo di indovinare la propria carta.
Verso le 18 uscimmo dalla scuola e tornammo a casa.
Quella sera cenai con cetrioli e un fantastico plov, un piatto a base di riso, carote e pezzi di carne, leggermente piccante. Mentre mangiavamo, Nadezhda mi disse che la sera successiva sarebbe tornata tardi perché avrebbe dovuto andare fuori città per lavoro e che avrei potuto prendere quello che volevo dal frigo e cenare da sola.
Poi andai nella mia stanza a fare i compiti per il giorno dopo.
Per il pomeriggio seguente era prevista una gita a un parco avventure con ponti tibetani, cosa che mi fece venire la giusta dose di ansia, data la mia acrofobia.
To be continued…
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